Un investigatore con il microscopio, in un laboratorio unico in Italia. Edoardo D’Imprima, novarese di nascita e milanese di adozione, è responsabile scientifico del laboratorio di Correlative Light-Electron Microscopy (CLEM) all’Humanitas Research Hospital e Humanitas University di Milano.
Come è arrivato a questo?
«Un po’ per affinità alla scienze biomediche, un po’ per caso. In fondo la vita è un flusso che seguiamo cercando di schivare ostacoli».
Quale professione voleva intraprendere?
«Il farmacologo. E tra il 2009 e il 2012 avevo il sentore, a differenza dei miei colleghi di università che hanno scelto tesi di laboratorio in ateneo, che una tesi sperimentale in azienda potesse determinare un vantaggio competitivo perché avrei lavorato. Così mi sono rivolto al parco scientifico tecnologico Bioindustry Park nel Canavese, una realtà forse poco conosciuta ma molto interessante; un incubatore supportato da fondi pubblici e privati. Io volevo costruire nuovi farmaci, volevo vederli. Quando è arrivato il momento di iniziare, però, il dipartimento scelto aveva chiuso e mi hanno proposto quello di Microscopia elettronica. Mi sono buttato e mi sono innamorato».
Perché?
«Vedevo strutture veramente minuscole e forse si sarebbe potuto trovare il modo per utilizzare questa tecnologia applicata alla farmacologia, per capire come reagiscono le molecole ai virus, e poi applicare la tecnologia alla biologia strutturale per capire come funzionano le cellule. Nel 2012 questo non era possibile a livello aziendale e di conseguenza, per esplorare l’ignoto e tentare di spostarne il confine, con un dottorato di ricerca mi sono trasferito in Germania».
Su quale il progetto ha lavorato?
«Cercare di utilizzare una tecnologia, sviluppata solo l’anno precedente, per vedere i farmaci mentre si legavano alle strutture della cellula. Guardare le macro molecole, traslando la potenza di analisi delle molecole isolate in molecole dentro la cellula».
Perché è tornato in Italia?
«Dopo 12 anni ho sentito il desiderio di tornare a casa e sono stato attratto dalla sfida intellettuale e tecnologica di attuare quello che avevo studiato per qualcosa di più vicino alla salute dei pazienti. Nel 2024 era possibile pensare di applicare la tecnologia».
E il 12 giugno 2025 è stata inaugurata una nuova piattaforma di imaging avanzata che unisce la visione della microscopia ottica alla potenza di ingrandimento della microscopia elettronica: la cosiddetta Correlative Light-Electron Microscopy. Come funziona?
«La CLEM è una tecnologia che nasce con l’obiettivo di unire due approcci complementari allo studio della biologia: da un lato, la microscopia ottica a fluorescenza, che permette di osservare eventi dinamici in tessuti vivi; dall’altro, la microscopia elettronica, che offre una risoluzione nanometrica per analizzare la struttura delle componenti cellulari. Una visione in tre dimensioni. Un altro elemento chiave è stato l’introduzione delle tecniche di crio-microscopia, che si basano sul “congelamento” istantaneo dei campioni biologici tramite azoto liquido ad alta pressione, che evita la formazione in ghiaccio e ne preserva così l’integrità strutturale. Grazie a questa combinazione, oggi è possibile osservare un evento biologico in diretta, localizzarlo con precisione e poi bloccarlo nel tempo per analizzarlo nei minimi dettagli e in 3D. Una sorta di TAC cellulare in quattro dimensioni, contando anche quella temporale. I non addetti ai lavori spesso apprezzano l’infinitamente grande (pensiamo allo spazio) e non percepiscono l’infinitamente piccolo e la sua straordinarietà».
Qual è l’obiettivo?
«Sfruttare la potenza combinata della microscopia elettronica e ottica per aiutare i medici e ricercatori a comprendere e quindi curare sempre meglio le principali malattie. La sfida più grande è quella di rendere la nostra tecnologia disponibile a rispondere alle domande che arrivano dall’ospedale. Il “salto” che vorrei compiere è quello di avere software più veloci e potenti per indagare, per esempio, sui tessuti e non più solo sulle singole cellule».
Cosa la soddisfa di più nel suo lavoro?
«La possibilità unica in Humanitas e in Italia di applicare questo ambito di ricerca a problemi di persone e non solo di batteri o cavie o rimanendo nell’ambito della teoria pura. Qui si parte dalle malattie che affliggono l’essere umano. Non si fa diagnostica però possiamo studiare per trasferire ai colleghi clinici e medici delle soluzioni che possono aiutare».
Un esempio?
«Prendiamo il filone dell’antibiotico resistenza. Sappiamo che i batteri si proteggono e si sono ricoperti di biofilm; di conseguenza l’antibiotico non riesce ad “arrivare” a loro e distruggerli. Con i colleghi di Hunimed si sono elaborate strutture anti aderenti ed è quindi possibile immaginare in futuro dei materiali scivolosi che portino via i batteri senza ricorrere ad antibiotici come li conosciamo oggi».
Numerose le collaborazioni già avviate, dunque…
«Sì. Roberto Rusconi, professore associato di Humanitas University e responsabile del Laboratorio di Biofisica Applicata, che appunto studia come diverse tipologie di superfici possono cambiare l’adesione batterica e il rischio di infezione nelle protesi mediche, senza l’utilizzo di antibiotici. Davide Pozzi, professore associato di Humanitas University, parte del programma di Neuroscienze diretto dalla professoressa Michela Matteoli, utilizza i nuovi microscopi per osservare se e come l’infiammazione è in grado di alterare la struttura delle sinapsi, i punti di connessione tra i neuroni che rappresentano un nodo cruciale all’origine delle malattie neurodegenerative. Sara Carloni, assistant professor of Microbiology and clinical microbiology di Humanitas University, ricercatrice presso il laboratorio diretto dalla professoressa Maria Rescigno, studia gli strumenti molecolari con cui i batteri del microbiota comunicano con l’ospite e tra loro, scambiandosi informazioni e capacità, tra cui la resistenza agli antibiotici».
Quali i vantaggi dell’avere un laboratorio come il suo?
«Non è stata acquistata solo una macchina, ma un laboratorio che combina microscopia ottica ed elettronica. Sono fiero della lungimiranza di Humanitas di fondare da zero un laboratorio di questo tipo che abbia prospettive di sviluppo e di progresso, che possa formare personale in Italia. Con me lavora Martin Centola proveniente dal Max Planck Institute of Biophysics di Francoforte, anche lui di rientro in Italia».
Più gratificazioni o più sacrifici nel suo lavoro?
«Quando qualcosa non funziona la frustrazione è inevitabile. E poi la scienza è un continuo migliorarsi, gli esperimenti stessi sono continui perché magari domani scopriamo qualcosa che rende obsoleto il risultato di oggi. Quando però qualcosa funziona si è ampiamente ricompensati. Se ci penso: un anno fa il mio arrivo e il laboratorio, sei mesi dopo la raccolta dati e a fine 2025 speriamo di avere già le prime importanti pubblicazioni scientifiche “made in Humanitas”».
Ha del tempo libero?
«Adoro il mio lavoro e se arriva un’idea, l’impulso è quello di mettersi al microscopio o al pc per verificarla e approfondirla indipendentemente dal giorno e dall’ora. Sono come un investigatore che cerca indizi, prove per capire cosa non funziona e come arrivare alla tesi corretta. Mi impongo, però, momenti di pausa fisiologica, per scaricare le tensioni, importanti per avere la mente fresca e lucida. Se sono in vacanza o con mia moglie non lavoro».
Ha delle passioni, degli hobby?
«Amo leggere libri di argomenti non scientifici e giocare a tennis, sport che ho praticato fin da bambino. Mia moglie, poi, mi ha fatto scoprire l’opera. Lei non lavora nel mio settore e anche questo è salutare perché non si parla solo di lavoro e soprattutto posso “provare” se sono in grado di trasmettere concetti scientifici in maniera comprensibile a chi non ha basi teoriche».
La ricerca è meglio supportata in Italia o in Germania? E’ vero il concetto di “cervelli in fuga” dal nostro Paese?
«Non sono esperto di politiche sociali ed economiche. Ho lavorato negli istituti tedeschi di più alto profilo a livello mondiale e non esistevano problemi di supporto alla ricerca. Se si guardano i numeri, il grant (finanziamento: ndr) più prestigioso, l’ERC (European Research Council) è stato vinto da 55 giovani italiani, un numero secondo solo a quello della Germania che investe il doppio nella ricerca. Di questi 55, però, solo 30 lavorano in Italia; significa che 25 giovani portano finanziamenti e fondi in altri Paesi. Al momento bisognerebbe lavorare per rendere il nostro Paese più attrattivo anche per gli scienziati non italiani».
Consiglierebbe la sua professione e il suo percorso a una giovane o un giovane?
«Senz’altro. La scienza non ha bandiera, non ha colore. E’ un grave errore rimanere nella propria comfort zone, cioè vedere sempre e solo la stessa modalità di risoluzione dei problemi. Fuori ci sono mondi e approcci diversi e si può imparare ottenendo grandi vantaggi. Allo stesso tempo, tornando in Italia si verifica come anche qui molti aspetti funzionino e bene».
Lei resterà in Italia?
«Sono tornato per restare».