Bergamo (BG)

Trattata male da un medico sgarbato, lo sfogo di una lettrice: «Non dovrebbero metterci a disagio»

Il racconto di Eleonora: «Gentilezza, rispetto e sensibilità non sono dettagli: sono parte integrante della missione di chi sceglie di curare persone»

Trattata male da un medico sgarbato, lo sfogo di una lettrice: «Non dovrebbero metterci a disagio»

di Clara Scarpellini

Lo scorso anno, Eleonora Patti, ottica da quarant’anni, è caduta dalle scale riportando una frattura al calcagno del piede destro. Dopo un rientro precoce al lavoro, il problema sembrava risolto, ma a maggio di quest’anno il dolore è tornato. Da lì è iniziato un percorso fatto di visite specialistiche, esami costosi e prescrizioni discordanti. Dopo una prima esperienza con un ortopedico in un ospedale della provincia, che le ha prescritto numerosi accertamenti senza però arrivare a una diagnosi chiara, Eleonora si è rivolta a un secondo specialista di una clinica privata di Bergamo, che le ha indicato un trattamento con onde d’urto.

Nonostante il percorso, i dolori non sono migliorati, anzi la situazione è peggiorata, portandola a richiedere ulteriori chiarimenti. Da qui parte il suo sfogo, che ha voluto condividere con la nostra Redazione.

Un secondo parere 

Il secondo specialista, dopo una visita rapida, diagnostica a Eleonora una fascite plantare, prescrivendole un ciclo di onde d’urto. Per tre settimane, sopporta delle sedute dolorose nella speranza di migliorare. Ma il piede, invece di guarire, peggiora.

La scorsa settimana, momento fissato per decidere se proseguire con le onde d’urto, la nostra lettrice si presenta nello studio. Si aspetta di essere visitata, come concordato prima delle ferie, ma la segretaria insiste che debba fare direttamente una nuova seduta. «Io mi sono rifiutata perché il piede era più gonfio di quando avevo iniziato le terapie», ci racconta. A quel punto interviene il medico, chiamato dalla segretaria, che per rassicurare Eleonora le propone nuovi esami. Le spiega di recarsi nei giorni successivi alla clinica dove lavora, senza un appuntamento, e di chiedere direttamente di lui munita della ricetta richiesta, così da poter fissare la visita per i nuovi accertamenti.

Una brusca accoglienza 

Quando Eleonora si presenta in ospedale, le infermiere la invitano ad aspettare qualche minuto tra un paziente e l’altro. «Erano educate e gentili – racconta -. Ma appena hanno portato la mia ricetta al dottore, dalla stanza si è sentita una risposta brusca, un commento spiacevole nei miei confronti. C’era tanta gente in sala d’attesa e mi sono sentita davvero a disagio».

Anche una volta entrata nello studio, il medico ha continuato a porsi con fare infastidito: «Era nervoso perché quel giorno aveva tanti pazienti in attesa e io mi ero presentata senza appuntamento, ma era esattamente così che ci eravamo accordati. Mi ha preso la ricetta dalle mani, aggiungendo che non avevo neppure fatto scrivere al mio medico di base la corretta dicitura – spiega Eleonora -. È vero che mi trovavo in quella situazione perché mi ero rifiutata di procedere con le onde d’urto, ma il piede mi faceva troppo male, avevo bisogno di altri accertamenti e una cura diversa. La mole di lavoro o un paziente che chiede precisazioni sul proprio stato di salute non possono essere una valida motivazione per essere sgarbati. Già arriviamo dal medico con le nostre paure, i nostri dubbi. Speriamo di trovare dall’altra parte qualcuno che ci ascolti e ci rassicuri, magari con un po’ di tatto».

Non una polemica, ma uno spunto di riflessione 

La nostra lettrice ci tiene a chiarirlo: la sua non è una crociata contro i medici, né un attacco al sistema sanitario. «Nella mia vita ho incontrato professionisti straordinari. Infermieri e dottori che, nonostante orari impossibili e reparti pieni, trattano ogni paziente con gentilezza e dedizione. Loro fanno la differenza».

La riflessione parte dalla sua esperienza, ma tocca un tema ormai universale: l’etica delle professioni che hanno a che fare con le persone. Che si tratti di medici, infermieri, insegnanti, ottici, la competenza tecnica è fondamentale, ma non basta. Senza empatia, senza la capacità di mettersi nei panni dell’altro, il rischio è trasformare un lavoro di cura in una catena di montaggio. «Un paziente non dovrebbe mai sentirsi sbagliato se fa domande o chiede spiegazioni – conclude Eleonora -. Dietro ogni referto c’è sempre una persona con le proprie fragilità e le proprie paure. Curare dovrebbe significare anche questo: accogliere, ascoltare, accompagnare».