Genova (GE)

Enrico Faccini è un disegnatore Disney: "La mia vita come un fumetto"

Lascia il “segno” in ogni storia che firma, donandoci il suo tratto inconfondibile, caratterizzato da una ricca dose di ironia. Lui è Enrico Faccini, classe 1962, disegnatore e sceneggiatore Disney molto apprezzato. Nativo di Santa Margherita Ligure, ha seguito un percorso, a volte in salita, che però può essere di ispirazione per chi sogna questa professione.

Enrico Faccini è un disegnatore Disney: "La mia vita come un fumetto"
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Intervista a Enrico Faccini, disegnatore Disney: "La mia vita è come un fumetto".

Il disegnatore Disney Enrico Faccini racconta la sua vita tra i fumetti

Lascia il “segno” in ogni storia che firma, donandoci il suo tratto inconfondibile, caratterizzato da una ricca dose di ironia. Lui è Enrico Faccini, classe 1962, disegnatore e sceneggiatore Disney molto apprezzato. Nativo di Santa Margherita Ligure, ha seguito un percorso, a volte in salita, che però può essere di ispirazione per chi sogna questa professione.

Enrico, ripercorriamo la tua carriera e le tue origini: raccontaci un po' di te.

«Fin da piccolo disegnavo benissimo. Almeno, me lo dicevano i maestri e i compagni di scuola… È forse una predisposizione genetica, visto che Elda, la mia nonna materna, era una valente pittrice. Inutile dire che questa mia fama è durata fino a quando sono entrato in contatto con i disegnatori veramente bravi… Mio padre Antonio con lungimiranza mi regalò per tutti gli anni della mia infanzia l’abbonamento a “Topolino”: su quelle pagine, lette e rilette fino a squadernarle, ho maturato il piacere della lettura come evasione verso mondi di fantasia. Un giorno sono entrato nei mondi meravigliosi creati da Barks, Gottfredson e Scarpa, e non sono riuscito a uscirne mai più: tutti artisti che, divenuto autore a mia volta, mi hanno insegnato il gusto e il metodo della gag fulminante in poche vignette».

Curiosamente, nonostante gli dèi ti avessero donato un talento naturale nel disegno, ti sei iscritto al liceo classico, forse l’unico a non contemplare attività artistiche.

«Tuttavia non rimpiango la scelta, perché negli anni si è rivelata valida nel creare una forma mentis utile nell’approccio al lavoro, specie quello di soggetto e sceneggiatura: impegnarsi nella ricerca del risultato migliore, evitare facili scorciatoie, valutare le possibili variabili, eccetera. Insomma, prendere le cose sul serio e lavorarci sopra. Dopo un periodo di frequentazione universitaria ahimè senza esito, ho deciso una volta per tutte di abbracciare la mia vocazione al disegno, ma non è stato un percorso semplice».

Raccontaci.

«Inizialmente ero molto attratto da un certo fumetto autoriale, quale quello di Hugo Pratt, Dino Battaglia, Sergio Toppi e degli autori sudamericani presentati su “L’Eternauta”, notevole rivista edita da Rinaldo Traini. Realizzai, quindi, una mia versione del racconto “Il gatto nero” di E.A. Poe, ingenua e alquanto ingarbugliata, che nelle intenzioni avrebbe dovuto servirmi da biglietto di presentazione. Ricordo che spedii a Bonelli le fotocopie senza averne risposta, ed ebbi poco dopo un appuntamento con Florenzo Ivaldi, l’editore che permise a Pratt di realizzare la celebre “Ballata del mare salato”: anche qui, picche. Il terzo tentativo fu, invece, vincente: verso la fine del 1987 mi presentai allo “Staff di If”, emanazione dell’agenzia milanese “Epierre” di Gianni Bono. A quell’epoca, lo “Staff” fungeva da tramite e collegamento con tutti gli editori, a partire dalla Disney, fino a Bonelli, Astorina, i fumetti derivati dai cartoni animati giapponesi, arrivando fino ai fumetti da caserma. Sentendo la parola “Topolino” e avere un flash che cancellava di colpo le ambizioni da autore snob, fu un colpo solo. Dovevo assolutamente misurarmi con un mito senza eguali!».

Un percorso però che ha avuto un po’ di salite.

«Eh, sì… prima di arrivare all’esordio sul settimanale “Topolino” ho dovuto percorrere una strada non poco impegnativa, disseminata di matite consumate, gomme sbriciolate, pennelli sfibrati e barattoli su barattoli di inchiostro di china… Come tutti, ho iniziato a copiare copiare e ancora copiare da autori Disney come Romano Scarpa. A marzo 1988, nella sede milanese della “Epierre” incontrai lo sceneggiatore Carlo Chendi, il quale poi accettò di incontrarmi - per comodità di entrambi - nello studio Bierreci in via Boccoleri a Rapallo. Da allora, ogni domenica, ebbi appuntamento fisso o quasi: portavo a Chendi i disegni realizzati in settimana, poco per volta un po’ più sicuro. Ricordo come Chendi mi avesse definito “Uno di quelli destinati a diventare bravi”».

Proprio quasi contemporaneamente, vinci una selezione e vieni assunto da uno storico quotidiano ligure, sempre nel 1988. Quanto ha influenzato questo lavoro nel disegno?

«Nei primi anni, la mia mansione al Secolo XIX fu di operatore grafico, poi, di vero e proprio grafico di redazione/assistente dell’art director, con buona libertà creativa e diverse soddisfazioni. L’assunzione al giornale è stata una tappa fondamentale. Infatti, i quotidiani vengono “montati” in tipografia la sera, quindi io lavoravo da metà pomeriggio fino a sera inoltrata, avendo in cambio tutta la mattina e il primo pomeriggio libero da dedicare al fumetto, con le spalle protette da uno stipendio fisso. Ho avuto pertanto la fortuna di poter scrivere e disegnare storie senza l’assillo di consegna e pagamenti, concentrandomi sui progetti che più mi stimolavano e piacevano».

Torniamo al fumetto.

«A ottobre del 1988, considerandomi maturo, Chendi mi mandò dallo “stregone” Giovan Battista Carpi, mito assoluto di infinite storie (di cui una mi colpì particolarmente: “Topolino e i ladri d’ombre”) e di magnifiche illustrazioni a tempera per il manuale delle Giovani Marmotte o il manuale di cucina di Nonna Papera. Carpi, omino piccolo dal basso tono di voce e dai modi discreti, mi riceveva a casa sua, in via Montello, nei pressi della facoltà di Magistero a Genova. Omino piccolo sì, ma di gran carattere e molto esigente quando si trattava di impartire lezioni di disegno e correzioni su correzioni sui miei disegni. Solo ora mi rendo conto del valore e dell’importanza di quelle lezioni, al pari di quelle che a distanza mi impartì per un breve periodo anche Romano Scarpa».

E qui la svolta.

«G.B. mi rivelò di aver ricevuto da Capelli la disposizione di selezionare una nuova leva di disegnatori, vagamente denominata a quei tempi come “scuola Disney”. Accompagnai un giorno Carpi a un incontro nella sede della redazione a Milano, dove incontrai anche il caposervizio sceneggiature Massimo Marconi. Il mio arrivo avvenne quindi in fortunata coincidenza con il passaggio delle pubblicazioni periodiche dalla Mondadori alla Walt Disney Company Italia. All’epoca, il direttore Gaudenzio Capelli fu artefice di un grande rilancio delle pubblicazioni Disney. In più, i tempi erano maturi per un progressivo ricambio della “vecchia” guardia di sceneggiatori e disegnatori. Entrai a far parte di uno squadrone composto da disegnatori destinati a diventare firme importanti. Ricordo che, dopo due o tre tavole di prova, Carpi mi incoraggiò a scrivere e disegnare una storia che mi tenne occupato per quasi sei mesi, tra scrittura del soggetto, sceneggiatura e disegni corretti e rifatti infinite volte. Una bella palestra, insomma».

E arriviamo alla tua prima storia su Topolino.

«Il 19 novembre 1989, sul numero 1.772 di “Topolino”, esordii con la mia prima storia, il cui titolo originale fu peraltro modificato in sede redazionale, per smorzare certi toni un po’, diciamo così, “esplosivi”. Comprai almeno dieci copie di Topolino, per esibirle a mamma, papà, parenti, amici e colleghi. Oltretutto, all’epoca passavano mesi e mesi dal momento della consegna delle tavole - che poi dovevano attraversare le fasi di lettering e coloritura - alla pubblicazione. Il fatto è che nei mesi successivi avevo continuato a disegnare, maturando il tratto e acquisendo sicurezza e un pizzico d’esperienza in più. Al momento di leggere, dopo svariati mesi, la prima storia pubblicata… quanti errori e quante ingenuità mi apparivano!».

Cosa pensi sia cambiato in questi anni in questo mondo?

«Dal 1988 a oggi? Perbacco, è cambiato tutto il mondo, come non poteva cambiare il fumetto Disney e non solo? Primo, la crisi e riduzione delle riviste periodiche (settimanali o mensili) da edicola. Secondo, la diffusione delle graphic novel da libreria. Terzo, le pubblicazioni sul web. In teoria, Internet offrirebbe possibilità infinite di mostrare i propri lavori tramite blog o social, raggiungendo virtualmente il mondo intero. Il che sarebbe fantastico… se non ci si scontrasse con un oceano di milioni e milioni di contenuti, il che rende molto difficile emergere e farsi notare. Senza contare l’attitudine allo zapping dell’utente medio, che dedica pochi secondi a una cosa, per passare alla successiva».

In questi anni hai ricevuto diversi riconoscimenti, dal Topolino d'oro come miglior sceneggiatore (2005) al Topo Oscar per aver disegnato la miglior copertina (2007) o la miglior storia breve (2013), e tanti altri, a quale sei più legato?

«Devo però dire che sono più legato ai difetti di certe mie storie, che da una parte mi fanno soffrire e desiderare di tornare indietro e rifare, dall’altra mi fanno tenerezza perché mi ricordano il periodo in cui realizzai quella data storia. Ultimamente la Panini mi ha onorato della ristampa in prestigiosi volumi cartonati delle storie di cui sono autore completo. Il che mi ha dato l’occasione di rileggere storie di venti o trent’anni fa di cui mi ero dimenticato, e non posso far altro che ammetterlo: più volte ho provato un’emozione particolare».

Torni spesso o vivi nel territorio del Levante ligure?

«Ho abitato stabilmente a Rapallo fino al 1977, dopodiché la mia famiglia si è trasferita a Genova. Abbiamo sempre mantenuto casa a Rapallo, per il fine settimana e per il periodo di ferie dei miei genitori, i quali, una volta in pensione, hanno acquistato un appartamento nel centro storico. Io sono rimasto a Genova, perché legato al lavoro a Il Secolo XIX. Diciamo che, una volta alla settimana, una capatina in quel di Rapallo l’ho sempre fatta, come pure a Chiavari e a Santa Margherita. Purtroppo papà è mancato nel 2020 e mamma a giugno del 2024; è probabile quindi che, in futuro, la bussola dei miei viaggi si sposti da Rapallo per orientarsi verso altre mete. Il mondo è grande, anche se basterebbe l’Italia da sola».

Sogni e desideri per il futuro?

«Il mio rapporto di lavoro con Il Secolo XIX è terminato il 1 marzo 2024, quindi… godermi la pensione, senza però interrompere il lavoro con matita e pennello! Insomma, un futuro che sia il più possibile sano, felice e pieno di storie e fantasia!»